Di Adriano Marinensi – Teneva un cognome quantomeno inusuale la vittima del giallo di Torino: si chiamava Magliacani (nome di battesimo Fulvio). Giovane benestante, sposato con Franca Ballerini, una biondina un po’ irrequieta. Aveva 28 anni Fulvio quando scomparve da casa il 21 giugno 1972, mentre la moglie era in vacanza. La sua (della signora) prima reazione alla notizia fu: Sarà scappato con un’altra donna. Più tardi aggiungerà, mentendo, che s’era portato appresso alcuni abiti e gli effetti personali dentro una valigia. L’avventura di un marito che se la svigna con l’amante, approfittando dell’esser solo, si appalesa come un film già visto più volte. Quindi, la versione è plausibile.
Non la pensava allo stesso modo il padre del morto e neppure Raffaele Savoia, tignoso segugio, maresciallo dei Carabinieri. Indaga, indaga, scopre che l’amante, invece di Fulvio, ce l’ha Franca. Si chiama Paolo Pan, 32 anni, sua antica fiamma, bulletto di quartiere, alquanto belloccio, una specie di controfigura di Alain Delon, specializzatosi in commercio internazionale di auto di lusso. Però rigorosamente rubate e tutte di grossa cilindrata. Dunque, il “triangolo” è disegnato: lui (Fulvio), lei (Franca) e l’altro (Paolo). E quando dal triangolo viene a mancare un lato (Fulvio, appunto), sicuramente gatta ci cova.
Storie di questo tipo – d’amore e coltello – sono molto appetite dall’opinione pubblica. C’erano in giro ancora i lettori di Grand Hotel e di Sogno, i fotoromanzi strappalacrime, e il terzetto col morto ci stava proprio a pennello. La Franca dai sogni inquieti, Paolo Pan lo aveva conosciuto adolescente, pervasa da profondo invaghimento. Però, era stata convinta a sposare Fulvio, per una scelta di vita più tranquilla. Da maritata, ecco ricomparire il primo amore (che non si scorda mai) e il fuoco della passione s’era riacceso. A quel punto, nella tresca, qualcuno era di troppo. Allora mano al coltello per dar principio al fumettone noir che diventa spettacolo e avvince in una rissa di opinioni contrastanti, espresse in famiglia, al bar oppure dove si lavora nulla facendo.
Il maresciallo Savoia, nella sua indagine, s’imbatte in un altro rilevante protagonista della storia: Tarcisio Pan, germano di Paolo (occhio ai personaggi, perché la scena del crimine comincia ad affollarsi). Carlo Nordio, su Il Messaggero, ha scritto di Paolo: “Costui aveva un fratello, Tarcisio; come il Gervaso del Promessi Sposi, ne era la copia mal riuscita, imbecille, gradasso e chiacchierone”. Oltre che frequentatore della malavita di basso profilo. Quando erano trascorsi diversi mesi dalla scomparsa del Magliacani, ecco apparire sul proscenio proprio il chiacchierone, il quale, quasi fosse una vanteria, fa una rivelazione: non si è trattato della scappatella piccante da parte di Fulvio, ma di un omicidio. Ad accoltellarlo è stato Paolo e lui, Tarcisio, lo ha aiutato a disfarsi del cadavere. La incredibile testimonianza ce l’ha il solito maresciallo Savoia in un nastro registrato dove si ascolta la voce di Tarcisio che racconta la sua verità.
Ma va, lo scemunito ne ha detta un’altra delle sue! Nient’affatto. Agli increduli, Tarcisio offre la prova regina, accompagnando gli inquirenti in un bosco dove, sotto poca terra, si trova il morto ammazzato. Rinvenuto il corpo (del reato), Franca e Paolo, ormai assurti al consueto ruolo di “amanti diabolici”, vengono tratti in arresto. Siccome, ad abundantiam, Tarcisio sostiene che il fratello è l’autore pure dell’omicidio di un concorrente nel traffico delle automobili, commesso in correità con altro, anche quell’altro, tale Gennaro La Chioma, diventa imputato. Sono trascorsi un bel po’ di mesi dalla scomparsa di Fulvio, ma ora tutto risulta chiarito, anche senza l’aiuto di “Chi l’ha visto?” e della loquace Federica Sciarelli. Nel frattempo, Paolo s’è fatto scioccamente paparazzare in spiaggia insieme all’amata Franca, già vedova Magliacani, però ancora in segreto.
Il processo inizia nel marzo 1977 (il morto era uscito da casa nel 1972). Si andrà avanti in un guazzabuglio di confessioni, ritrattazioni, conferme, smentite e le consuete arringhe appassionate. Appena entra la Corte, s’avvia in aula lo scambio di accuse e contumelie tra i due principali imputati. E’ stato lui, io non ne sapevo nulla (Franca); lo ha ucciso lei, io ho occultato soltanto il cadavere (Paolo). Una parte in causa la recitano pure i periti che definiscono Paolo “freddo e amorale”, Tarcisio “un debole, emotivamente insicuro”, Franca “ipocrita, vana e superficiale”. Il primo tempo della vicenda giudiziaria si chiude (2 maggio 1977) in questo modo: ergastolo per gli “amanti diabolici”, 28 anni a Tarcisio, assoluzione per Gennaro La Chioma.
In appello, la Corte modifica radicalmente il verdetto di primo grado: ergastolo a Paolo e assoluzione per tutti gli altri imputati. Si arriva ad ottobre 1981. La Cassazione annulla il proscioglimento della Ballerini e rinvia alla Corte d’Appello per altro dibattimrento, ma la donna viene assolta definitivamente, nel dicembre 1982. S’era comunque fatti 6 anni di galera. Per Paolo Pan, autore riconosciuto dell’omicidio, nel gennaio 1996, arriverà la grazia del Presidente della Repubblica Scalfaro. Più di venti anni trascorsi in carcere, tra Rebibbia e Porto Azzurro e l’insperato atto di clemenza, non gli sono bastati per modificare la sua concezione di vita. Nel dicembre 2001, viene arrestato all’Aeroporto di Lima perché trovato in possesso di un grosso quantitativo di cocaina. La nuova “bravata” gli costa, in Italia, una condanna a 8 anni e la revoca della grazia.
Nelle pieghe dei processi s’affaccia pure una fanciulla che di cognome fa Magliacani, ma par che sia figlia di Paolo Pan. E Carlo Nordio scrive: “Motivato anche (il provvedimento di clemenza) dal perdono concesso dalla figlia della vittima che peraltro non era affatto del povero Magliacani. Così, la figlia perdonava il padre naturale per aver ucciso quello legittimo in quanto marito della madre”. Insomma, una “contorsione” umano – anagrafica, andata ad arricchire il canovaccio della tragedia. Su questa passionale e appassionante vicenda, Claudio Giacchino ha scritto un ottimo libro intitolato “Amanti coltelli”. Il giornalista di “la Repubblica” Claudio Mercandino – che il libro lo ha letto – riporta la fotografia del complesso iter giudiziario come “una deriva di colpi di scena, di accuse e bugie, retorica ottocentesca, lacrime e cinismo, odio e disperazione e gli occhi morbosi del pubblico che sottolinea con applausi e insolenze, i passaggi più spettacolari dei processi”. E’ ciò che sempre accade quando i crimini si condiscono di additivi peccaminosi e diventano la trama di un romanzo popolare, però realmente accaduto. E buono magari da portare in scena nei teatrini di borgata oppure sui settimanali giornalisticamente di grana grossa, dove il terreno è fertile di eccitazioni forti.