di Adriano Marinensi – Qualcuno penserà ch’io, nello scrivere, abbia il pallino delle ricorrenze. Non è così. Penso che le ricorrenze vadano usate come rimembranze. Quindi, per taluni fatti e protagonisti della storia, ritengo sia utile e coerente rinverdire la memoria. Gli “eroi” di questo breve racconto sono due ed hanno lo stesso nome e cognome, entrambi nati a Genova, seppure in epoche diverse.
Il più conosciuto è Andrea Doria, Ammiraglio, grande navigatore, di stirpe nobile. Nacque nel 1466 ed è sepolto, nella città ligure, dentro la Basilica di S. Matteo, per l’onore che i suoi concittadini gli riconobbero. Fu Principe e Marchese, ma soprattutto lupo di mare. Ebbe padre e madre dai nomi un po’ bizzarri: Ceva Doria lui, Caracosa di Dolceacqua lei. Al casato, Andrea aggiunse quello altrettanto curioso di sua moglie: Peretta Usodimare.
A Roma iniziò un curriculum di prestigio, come Ufficiale delle Guardie del Papa Innocenzo VIII, al secolo Giovanni Battista Cybo, genovese anch’egli, morto nel 1492, nel mentre un altro illustre nato a Genova, Cristoforo Colombo, scopriva l’America. Andrea Doria era al comando della flotta pontificia di Clemente VII al tempo del sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi (1527). Divenne uomo di potere quando i suoi concittadini lo nominarono Comandante del porto e della flotta, il centro motore della grande marineria ligure. Poi passò al servizio di Francesco I, Re di Francia, per liberare Genova dagli spagnoli. Accumulò enormi ricchezze, alloggiando in una sontuosa dimora. Fu dominus della città, Cavaliere dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro e Cavaliere del Toson d’oro, però il mare divenne il suo palcoscenico. Compì grandi imprese, passando talvolta da un campo all’altro, con qualche disinvoltura di troppo. In definitiva, un primo attore del tempo durante il quale visse. Ebbe vita quasi centenaria, a cavallo di due secoli (XV e XVI).
Ad un campione della antica storia marinara, non poteva mancare, in epoca moderna, la dovuta riverenza. Nel corso della 2^ Guerra mondiale, l’Italia aveva perso la metà della sua flotta mercantile. Quando i Cantieri Navali Ansaldo (di Genova, ovviamente), alla fine degli anni ’50 del ‘900, costruirono un transatlantico di gran lusso, si pensò bene di battezzarlo con il nome di Andrea Doria. La prestigiosa motonave venne varata il 16 giugno 1951, con la benedizione del Cardinale Giuseppe Siri e fece il primo viaggio due anni dopo. Era lunga 200 metri e larga quasi 30; poteva ospitare 1240 passeggeri, oltre a 580 uomini di equipaggio. Vantava tre piscine e l’aria condizionata in tutti i locali abitati. C’erano nelle sale numerose opere d’arte ed una statua dell’Ammiraglio Doria a grandezza naturale. Un gigante del mare – si disse – sicuro e sontuoso, che, per grandezza, era secondo soltanto alla Queen Elizabeth e, per velocità, alla United States. Occorreva rinverdire la tradizione dei secoli passati, quando l’Italia era regina della navigazione e quindi, con l’Andrea Doria, avevano fatto un investimento colossale.
Purtroppo, l’attendeva un destino simile a quello che, nel 1912, aveva “ucciso” il Titanic, durante il viaggio inaugurale. Anche questa era una nave simbolo, riservata per il lusso, ai ricchi. Infatti, il giorno del naufragio, recava a bordo molti vip e magnati facoltosi. Il biglietto di sola andata, in 1^ classe, dall’Inghilterra a New York, costava una fortuna: 3.400 dollari dell’epoca (4.350 dollari l’appartamento). La società armatrice del Titanic, per garantirsi il dominio delle rotte oceaniche ci aveva investito 170 milioni di dollari. La durata prevista del viaggio era di otto giorni. Dopo due giorni di navigazione, il Titanic risultò in anticipo sulla tabella di marcia e quindi avanti tutta con l’obiettivo di battere il record di velocità, un riconoscimento che dava prestigio e pubblicità. Fu proprio quel navigare a tutta forza una delle cause che provocarono il disastro. Durante la notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, finì addosso ad un iceberg, in mezzo all’Atlantico, spezzandosi in due tronconi. In meno di tre ore affondò causando la morte di 1518 tra passeggeri e personale di bordo. L’avevano soprannominato “l’inaffondabile”.
Non fu altrettanto tragica, quanto alla perdita di vite umane, la vicenda dell’Andrea Doria. Perché accadde di fronte al porto di New York. Il 25 luglio 1956, giusto 60 anni orsono, (eccola la “ricorrenza” che da titolo a questo mio scrivere), nelle acque del porto americano, entrò in collisione con il mercantile Stockolm. Morirono 46 persone sulla nave italiana e 5 su quella svedese. Fu possibile effettuare la grande operazione di salvataggio, in quanto l’affondamento avvenne il mattino del giorno successivo. La prua dello Stockolm, rinforzata per operare pure da rompighiaccio, fece uno squarcio tremendo nella fiancata dell’Andrea Doria che non lasciò scampo. Calcolarono che circa 500 tonnellate di acqua erano penetrate attraverso la falla lunga quanto l’intera fiancata. A bordo 1.100 passeggeri e 570 componenti l’equipaggio, comandato da un capitano famoso, Piero Calamai, genovese.
C’era imbarcata la famosa attrice americana Ruth Roman. Nel film “I tre segreti”, aveva interpretato la parte di una madre in attesa all’aeroporto di conoscere la sorte del figlio a seguito di un incidente aereo. Le cronache riferirono che rimase per ore sul molo del porto di New York, in attesa del figlio (quello vero) ch’era stato da lei separato durante i soccorsi. Come per il Titanic, la scarsa visibilità aveva favorito l’impatto.
Quel giorno, dal porto di New York, era salpato il transatlantico Stockolm, diretto verso il nord Europa. L’incrocio tra le due navi avviene intorno alle 23, mentre sono ormai in rotta di collisione e non servono più le manovre di scampo.
L’Sos viene raccolto per prima dalla Ile de France che riesce a trarre a bordo alcune centinaia di naufraghi. Tranne coloro che sono deceduti nell’impatto, tutti gli altri vengono salvati durante il soccorso.
L’alba del 26 luglio è tragica per l’Andrea Doria: intorno alle 10 affonda e si adagia a 75 metri di profondità dove il relitto giace ancora oggi. L’Italia che, durante gli anni ’50, era un Paese affacciato sulla speranza, aveva perso un mito della navigazione transatlantica e un grande patrimonio di bellezza e di arte, un vanto della cantieristica nazionale. Ancora per qualche anno, i viaggi in nave, sulle lunghe rotte, restarono una esperienza piena di fascino; poi cominciarono a riempire il cielo aerei da trasporto che scavalcano l’Atlantico in poche ore e l’epoca romantica delle feste a bordo, degli amori concepiti nei fulgenti salotti, degli intrighi offerti agli scrittori di libri gialli, è finita per sempre.