«A Seattle ero considerata solo una ragazza carina. In Italia ero diventata l’americana bionda e bellissima» dice di sé Amanda, guardando in macchina. Siamo agli inizi di Amanda Knox, il documentario scritto e diretto da Rod Blackhurst e Brian McGinn per Netflix,che sarà disponibile dal 30 settembre sulla piattaforma.
E dopo una breve panoramica su quella ormai tetra villetta di Perugia dove il primo novembre del 2007 Meredith Kercher veniva assassinata brutalmente diventando la vittima del caso più controverso di cronaca nera internazionale, appare Amanda Knox. «Se sono colpevole, significa che devo vivere nella paura. Se sono innocente significa che sono vulnerabile e che potrebbe succedere anche a voi. Sono una psicopatica o sono una di voi?» si chiede Amanda, quasi fosse dentro un confessionale metatelevisivo. Qual è insomma la verità?
Avendo la legge italiana stabilito in cassazione che né lei né Raffaele Sollecito sono colpevoli, è chiaro che la verità di cui parla Amanda e di cui parla il film risiede nell’intimità dei protagonisti. «Si sono sempre visti e sono sempre stati raccontati e analizzati dall’esterno. – dicono i due registi che abbiamo incontrato a luglio a Londra-. Questo non ci interessava. Ci interessava invece il loro racconto, il loro punto di vista. Volevamo che venisse fuori la loro umanità»