di Adriano Marinensi – Giorni addietro, ho scritto della sciagura avvenuta, ad ottobre, sulla diga del Vajont. Oggi per trarre dalla dimenticanza un altro “calvario” patito, anch’esso nel mese di ottobre, di 73 anni fa. A Roma, le S.S. aggredirono la popolazione ebrea e deportarono tutti nei campi di sterminio. Lo scopo di questa rimembranza è far conoscere – soprattutto ai giovani, ma pure a quelli di mezza età che all’epoca non c’erano – la protervia di taluni atti di guerra e quindi per stimolarli a compiere azioni di pace.
Il rastrellamento del Ghetto di Roma permise la cattura di 1.259 persone, oltre 1.000 delle quali (intere famiglie e un gran numero di bambini) finirono ad Auschwitz. Un lager orrendamente famoso al pari di Mathausen, Buchenwald, Dachau, Bergen Belsen, Treblinka ed altri meno noti, ma ugualmente governati dal terrore nazista. Le S. S. si presentarono che ancora non era sorto il sole, il 16 ottobre 1943, in pieno assetto di guerra, cercando che nessuno sfuggisse alla retata.
La storia antica ci dice che il Ghetto, a Roma, è stato istituito da Papa Paolo IV, in un’area del rione S. Angelo. Poi ci pensò Pio IX, nel 1848, ad abbattere le mura di quella sorta di reclusorio. Al tempo dell’invasione tedesca in Italia (1943), la comunità ebraica della capitale contava circa 10.000 persone. Mentre, a Berlino, Heinrich Himmler pianificava la “soluzione finale”, al comando della Gestapo, a Roma, c’era il colonnello Herbert Kappler, il sicario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944) che costò la vita a 335 innocenti. Li fece assassinare, per rappresaglia all’attentato partigiano di Via Rasella (23 marzo), cinque alla volta, nelle cave di pozzolana sulla Via Ardeatina. Suoi complici furono il connazionale Erich Priebke e il questore di Roma Pietro Caruso.
Nel 1959, mentre scontava la condanna all’ergastolo nel carcere di Gaeta, il criminale Kappler ebbe l’impudenza di chiedere al Presidente della Repubblica, l’autorizzazione a recarsi “in pellegrinaggio di penitenza (sic!) al Sacrario delle Ardeatine e di rimanervi il tempo necessario per rendere omaggio alle vittime”. Aveva già fatto la sua ottima figura Kappler, di fronte a Hitler, contribuendo alla liberazione di Mussolini prigioniero sul Gran Sasso, ma la “consacrazione” a criminale di guerra se la conquistò – insieme all’infinito elenco di crudeltà compiute in Italia – con il raid nel Ghetto di Roma. A fine settembre 1943, Himmler gli aveva inviato un telegramma con l’ordine di cattura per “tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, sesso, età e condizione”. L’ordine precisava: “Dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati”. Ed ancora: “Il successo dell’impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa”.
Ligio al proprio dovere (infame), il colonnello organizzò – in perfetto stile Gestapo – un’azione studiata e vile, quasi fosse l’accerchiamento di una divisione nemica. Prima dell’alba, il Ghetto era già accuratamente circondato da centinaia di militari armati e minacciosi. Alcuni giorni prima dell’azione, per elevare il livello della sua perfidia, Kappler convocò i Presidenti delle comunità ebraiche di Roma e d’Italia e li minacciò con un sadico ricatto: entro 36 ore dovevano consegnargli 50 chili d’oro per salvare i loro connazionali dalla deportazione. Tra tanti sacrifici, la richiesta fu esaudita, ma il colonnello si tenne l’oro e non mantenne la parola.
Il 16 ottobre 1943 era di sabato e quindi giorno festivo per gli ebrei che perciò se ne stavano nelle case da dove i nazisti li fecero uscire con metodi brutali, senza risparmiare neppure i bambini, gli andicappati, i malati. Li trasferirono nel Collegio Militare di Via della Lungara; 256 vennero rilasciati perché risultati non di sicura razza ebrea. Ci vollero quasi 20 carri bestiame per caricarli tutti, quando furono spediti, il 18 di ottobre, dalla stazione Tiburtina, con destinazione Auschwitz, dove giunsero, dopo quattro giorni di inaudite sofferenze. I fisicamente sani salvarono temporaneamente la pelle, gli altri subito alle camere a gas, mascherate da docce e quindi nei forni crematori. Era il metodo nazista usato nei luoghi del massacro, dove si consumavano le più bestiali ignominie che la mente dell’uomo abbia mai concepito.
In Italia, meno di un mese prima, Benito Mussolini, sfiduciato dal Gran Consiglio ( 24 – 25 luglio 1943) e liberato dalla prigione del Gran Sasso (12 settembre), aveva fondato, a Salò, un paese sul lago di Garda, la Repubblica Sociale Italiana (23 settembre), l’ultima tragica incarnazione del partito fascista. E un Governo fantoccio – asservito ai voleri di Hitler – con a capo di nuovo il duce, insediatosi nella Villa Feltrinelli a Gragnano. Durò appena 19 mesi, sufficienti per promuovere la guerra civile tra italiani, che fu teatro di episodi di inaudita crudeltà.
Dalla ideologia delle superiorità della razza ariana, scaturirono le leggi razziali, in Italia entrate in vigore nel 1938, che discriminarono pesantemente gli ebrei in ogni settore pubblico e privato. Addirittura molti israeliti dovettero assumere nomi riconoscibili. Per esempio, di città: Di Segni, Di Veroli, Di Porto, Anticoli, Terracina, Bologna. Persino Perugia, Orvieto, Foligno. Un marchio anagrafico quasi fossero animali.
Degli oltre 1.000 ebrei del Ghetto di Roma, deportati in Germania, soltanto 16 tornarono: 15 uomini e una donna; nessun bambino minore di 14 anni. In una strada del vecchio Ghetto di Roma hanno apposta una lapide per non dimenticare. C’è scritto: “Il 16 ottobre 1943, qui ebbe inizio la spietata caccia agli ebrei e 2091 cittadini romani vennero avviati a feroce morte nei campi di sterminio, dove furono raggiunti da altri 6.000 italiani, vittime dell’infame odio di razza”. Il Comune di Roma vi ha aggiunto: ”E non cominciarono neppure a vivere. In ricordo dei neonati sterminati nei lager nazisti”. Perché, quei malnati neppure di migliaia e migliaia di bambini ebbero pietà. Tra le foto storiche spicca quella del piccolo ebreo del Ghetto di Varsavia, con il patetico berretto da grande in testa, che alza le mani di fronte alle armi spianate degli aguzzini di Kappler. Nel suo volto si legge lo stupore e l’angoscia di molte altre migliaia di piccoli innocenti.
A seguito di una puntuale ricerca, nel 1963, è stato istituito l’albo dei Giusti delle Nazioni, che rende onore a quanti – a rischio della propria vita – mostrarono il coraggio di salvare ebrei dalle persecuzioni antisemite. E’ una delle testimonianze che, a contrastare il male assoluto, vi furono autori di gesti di patriottismo umano. Non basteranno i decenni per cancellare quanto quegli altri uomini, avviliti nel cuore e nella mente, seppero realizzare a danno di inermi ed innocenti, imponendo, con la violenza, i tormenti peggiori, pianificati da una strategia, prima di segregazione, poi di annullamento razziale. Anche questo fu l’olocausto.