Di Adriano Marinensi – La storia, trasformata quasi in epopea, ci racconta che il 1968 fu l’anno che vide i giovani uscire dagli schemi, ormai desueti, della vecchia scuola (e della vetusta politica), nel tentativo di indicare alla società una svolta nel segno del rinnovamento e cercare maggiori spazi di libertà. E’ stato così? A 50 anni di distanza, volendo verificare quanto resta di quella “fiammata”, si finisce per concludere che resta ben poco. L’immaginazione e la fantasia tentarono di conquistare – forse era nelle intenzioni – spazi di potere, per realizzare i “segni” di una incisiva cultura sociale, di un diverso credo democratico, con una massiccia partecipazione collettiva.
E’ vero quel che scrive Franco Ferrarotti ne “La strage degli innocenti”: I giovani apportano energia, gli anziani esperienza e competenze; gioventù è energia senza sapere, anzianità è sapere senza energia. Così è, però i sessantottini dell’esperienza e della competenza dei “matusa” non seppero che farsene. Preferirono la trasgressione e la disobbedienza, tentando l’affermazione di un diverso modello civile, rimasto inattuato, così come altri nati dai movimenti studenteschi del prima e del dopo ’68. Rimasero irretiti da ideologie e idolatrie settarie, fallaci, ispirate da opposti estremismi. A dimostrazione che la protesta, per produrre effetti, oltre alle capacità di analisi, deve saper esternare una spinta costruttiva. Altrimenti si esaurisce. C è stata addirittura una corrente di pensiero che ha voluto fissare nella storiografia quell’anelito di rinnovamento come il seme dal quale è nata la mala pianta del terrorismo. Certo, li per li, qualche scossa tellurica ci fu e fece tremare le strutture socio – politiche più datate, in quanto riuscì ad imporre accelerazioni ideologiche e ripercussioni sul versante organizzativo. Poi, vinse la “controriforma”.
In Italia, l’evento che ha lasciato una vistosa traccia accadde a Roma ed è ricordato come “i fatti di Valle Giulia”. Proprio quelli della controriforma se ne servirono per dimostrare che il sessantottismo fu una canizza esagerata. Il 1 marzo, un venerdì ancora invernale, alcune migliaia di persone partirono in corteo da Piazza di Spagna. La maggioranza si diresse verso Valle Giulia per riprendersi la Facoltà presidiata dalla Polizia. Lo scontro fu inevitabile, alimentato soprattutto da appartenenti al movimento di Avanguardia nazionale (destra). Una curiosità: in mezzo ai dimostranti – di destra e sinistra, mescolati insieme – si ritrovarono, oltre al regista Paolo Pietrangeli, personaggi successivamente famosi come Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Ernesto Galli della Loggia, Oreste Scalzone. Tra gli uomini in uniforme, il futuro attore Michele Placido.
La battaglia divenne cruenta ed alla fine si contarono centinaia di feriti e contusi. Non pochi dei ribelli erano figli di papà e fecero arrabbiare persino Pier Paolo Pasolini, che non era di certo un conservatore. Rivolto agli studenti, scrisse: Siete pavidi, incerti, disperati , ma sapete anche essere prepotenti, ricattatori e sfacciati, prerogative piccolo borghesi. E aggiunse: Quando, a Valle Giulia, avete fatto a botte con i poliziotti, io simpatizzavo con i poliziotti. Si strepitava un po’ dovunque, persino alla Mostra del Cinema di Venezia, alla Scala di Milano, alla “bussola” di Marina di Pietrasanta. Poi, le occupazioni si estesero alla scuole secondarie. Ad Avola si ribellarono i braccianti contro le “gabbie salariali” e ci scappò il morto, anzi due. Jannacci, Dario Fo e Fiorentini lanciarono il cosiddetto “inno dell’esclusione”: Vengo anch’io? No, tu no!
Oltre confine, ci fu il maggio francese. I Campi Elisi diventarono il simbolo e il battesimo della contestazione che parve promettere grandi cose, senza riuscire a mantenerle. La folla di giovani, di sensazioni, di emozioni, qualche psicodramma collettivo, di li a poco, persero efficacia. Però, la società moderna, almeno in Europa, non rimase qual era prima. Al netto degli eccessi, taluni violenti, che furono numerosi e riprovevoli, molti di quei giovani si mostrarono avversari del pensiero unico e sostenitori dell’opinione critica. Solo in tal modo, la contestazione giovanile si accredita come fattore utile al confronto politico. Torna allora il discorso di Ferrarottti che tenta una sintesi positiva tra energia e sapere. E i giovani, se portatori di energia e sapere, diventano i punti di forza dello sviluppo. E’ quindi indispensabile che soprattutto la scena pubblica, in gran parte occupata dagli anziani senza energia, si apra all’apporto che una gioventù preparata può dare. L’impermeabilità dei palazzi del potere va rimossa, quando rappresenta l’antitesi dello Stato democratico. E la cultura deve tornare al suo ruolo promotore di sapienza sociale. Altrimenti la potestà decisionale è destinata a finire (l’Italia di oggi docet) nelle mani dell’improvvisazione grossolana e priva d’ogni retroterra politico.
Il sessantottismo, nella parte animata soltanto da passione scomposta, fallì. Non fu in grado di trasformare le idee in proposte e, in concreto, divenne uno sterile assalto alla diligenza. Pur se qualcosa è rimasto in termini di mutamento di pensiero, di orpelli cancellati, che può essere considerato fattore di cambiamento. Nella scuola, ad esempio, mutarono contenuto strutture e metodi, andarono in frantumi i vecchi organismi rappresentativi. Fu una fase storica colorata di futuro. Proprio nel 1968, accadde una vicissitudine che offese pesantemente la dignità delle società civili e merita un richiamo alla memoria. La Cecoslovacchia di Dubcek venne invasa dai carri armati sovietici (21 agosto). La “primavera di Praga” aveva conosciuto il suo inverno. Molte coscienze ne furono sconvolte. I nostri giovani si accorsero che altri giovani come loro stavano lottando per un raggio di libertà. Il popolo aveva pensato di svincolarsi dalla sovranità limitata ed aveva ottenuto una risposta repressiva a mano armata. In Italia, il 19 – 20 maggio, si votò per il Parlamento: intorno al 40% la D.C. di Mariano Rumor, al 27% il P.C.I. di Luigi Longo, al 15% il P.S.U. di Mauro Ferri. A Capo del Governo, mezzo anno ciascuno, Moro e Leone, alla Presidenza della Repubblica Saragat e Paolo VI in Vaticano.
Forse oggi, più di allora, ci sono valide ragioni per una “critica serrata” da parte del mondo giovanile. Il primo motivo è l’alto indice di disoccupazione che riduce gli spazi di impegno e limita i loro orizzonti futuri. Oltre recare affronto ad intelligenze e professionalità, spesso costrette nel limbo del precariato oppure nel lavoro cercato all’estero. Sono proprio questi “valori” che risultano emarginati e socialmente esclusi. Una tendenza da invertire, pena la perdita di “forze nuove”, indispensabili per sostenere il progresso civile, culturale e democratico. L’obbligo è trarre tanti giovani dall’anonimato del disimpegno dove sono finiti, costretti dalla disattenzione dei meno giovani. L’imperativo si pone per riattivare un fondamentale volano dello sviluppo.