di Adriano Marinensi – Una vecchia guida del Touring informa: Montone, Comune in provincia di Perugia, sorge in posizione panoramica, sopra un colle, con due eminenze di fronte, i Monti Catria e Nerone e sotto la Valle del Tevere. Detto così, è uno dei tanti mirabili centri dell’Umbria, attorno ai quali, quasi sempre, il paesaggio fa da sfondo, come una quinta circolare dai colori intensi e naturali. E, in Umbria, tutti i borghi vantano un bel po’ di rusticano e d’antico. Montone ha un tratto saliente, legato al nome di una famiglia aristocratica della quale, nel medioevo, fu contea: i Fortebracci. Ancor più alle gesta di un personaggio, signore di Perugia e tanto altro ancora. Credo valga la pena di conoscerlo, seppure attraverso quella che si suol definire intervista impossibile. Tratta però dalla sua vicenda vera e reale. Pur se, come sempre, nelle epopee dei protagonisti, la leggenda si confonde con il vissuto, però le gesta rimangono. Gli chiedo di presentarsi da solo.
R. Per l’anagrafe del tempo, mi chiamo Andrea, per la storia Braccio. Si, Braccio Fortebraccio da Montone di insigne casato; Oddo, mio padre e Giacoma Montemelini, mia madre. Mi misero al mondo il 1° luglio del 1368. Potrei dire che la passione per le armi è nata con me.
D. E’ stato un battagliero Capitano di ventura del suo secolo. Ventura richiama il termine avventuriero. Infatti combattevate a pagamento e cambiando facilmente casacca.
R. Eravamo, nell’arte delle armi, dei professionisti. Quel che oggi sono i giocatori del pallone, i quali, per esempio, giocano nel Perugia contro la Ternana e, l’anno dopo, viceversa. Senza nessuno scandalo. Le nostre “squadre” si chiamavano, Medici, Gonzaga, Visconti, Malatesta, Sforza e tante altre di pari potenza. Qualche volta, non lo nego, ci sono stati tradimenti e voltagabbana.
D. La differenza non trascurabile sta nel fatto che i calciatori usano il pallone, voi usavate la spada.
R. E’ sostanzialmente mutato il contesto storico, civile, sociale e quindi alla luce di tale cambiamento vanno interpretati il teatro e gli attori. Noi, per accrescere l’ “ingaggio”, dovevamo scendere in campo a mano armata, sfruttando le rivalità tra i signori dominatori dell’Italia, a quel tempo, sempre in lotta tra loro, per vincere il “campionato” del potere.
D. Messer Braccio, combattendo in giro per l’Italia, Lei ha messo insieme diversi titoli importanti.
R. Sono stato, oltre nobile per nascita, Signore di Perugia, Governatore di Bologna, Rettore di Roma, Principe di Capua, Conte di Foggia, Conestabile del Regno di Napoli.
D. Quando e perché decise di darsi alla ventura e in quale Compagnia?
R. C’era un forte contrasto tra noi nobili e i “raspanti” di parte popolare. Fummo cacciati da Perugia e dal castello di Montone. Allora cercai di procurarmi la rivincita e mi arruolai nella compagnia di Alberto da Barbiano. Persona seria e affidabile. C’era pure Muzio Attendolo Sforza.
D. Però, di voi Capitani hanno scritto: “Senza limite di ferocia, devastate le campagne e le città”.
R. Le guerre non sono mai state prive di violenza. Ne sapete qualcosa voi moderni che, nel corso del XX secolo, ne avete combattute due, sconvolto interi Continenti, ucciso milioni di persone. Al confronto, il nostro battagliare era poca cosa. Nelle azioni aggressive, qualche eccesso ci scappa.
D. Come andò lo scontro del 1416 per la conquista di Perugia?
R. I miei concittadini avevano nominato Carlo Malatesta “Difensore dei perugini per la Santa Chiesa”. Il 12 luglio, l’ho affrontato a S. Egidio sul Tevere e ho vinto. La città mi aprì le porte. L’insigne pittore Paolo Uccello ha immortalato il trionfo su una tela famosa.
D. Braccio da Montone è ricordato in particolare per la battaglia de l’Aquila che gli costò la vita.
R. Avevo chiesto di entrare in città con i miei soldati. Un Magistrato aquilano disse: “Nessun uomo di sorta entrerà in L’Aquila”. Era il mese di maggio 1423. La città aveva mura invalicabili. Allora fui costretto a porre l’assedio. Resistettero più di un anno e noi, per vivere, dovemmo approvvigionarci nelle campagne attorno. Forse per questo si è parlato di razzie e saccheggi.
D. Dunque, si trattò di una operazione molto lunga e di una resistenza tenace. Come si concluse?
R. Avremmo sicuramente costretti gli aquilani alla resa, se non fosse arrivato in soccorso l’esercito guidato da altri due Capitani di ventura, Giacomo Caldora, Francesco Sforza e Bartolomeo Colleoni. Con me c’erano Niccolò Piccinino e Gattamelata da Narni. Fu uno scontro militare terribile. Mi ferirono alla testa e venni trasportato prigioniero nell’accampamento di Caldora. Sulle cause della mia morte, si è detto che qualcuno spinse la mano del chirurgo che mi stava operando e restai trafitto; secondo altri, fu il Caldora, antesignano di Maramaldo, a darmi il colpo di grazia. Ciò che io ricordo, seppure vagamente, perché in fin di vita, è questo: sentendomi sconfitto, rifiutai per tre giorni di mangiare e bere. Ritengo sia stata questa la vera causa dalla morte (5 giugno 1424). A modo mio, con orgoglio, quasi fossi sul campo di battaglia. Da valoroso – lo scriva, per favore – come si addice ad un Capitano. Di ventura, si, ma con la dignità del soldato. Mi seppellirono, in terra sconsacrata, fuori delle mura di Roma.
D. Poi, le sue spoglie sono tornate in Umbria, dove la fama di Braccio da Montone resiste ancora.
R. Sono stato sempre fiero delle mie origini umbre. E lieto della decisione assunta, nel 1432, da Papa Eugenio che mi ha assolto, facendomi tornare nella città natale. Spero di essere rimasto in memoria come uomo di valore che ha sempre accettato ogni sfida con audacia e non per ciò che alcuni hanno tramandato, usando talvolta accenti diffamatori. Ho vissuto durante un’epoca contrassegnata da lotte e congiure; l’uso della spada era pratica necessaria e costume politico. Gli eserciti di ventura rappresentavano forse il cosiddetto braccio violento della legge, però la legge la imponevano i potenti. Persino gli uomini di Chiesa fecero la loro parte. In conclusione, mi sia consentito di ricordare quanto si legge nei libri di storia, in riferimento all’assedio de L’Aquila: “Sotto le possenti mura cittadine fu sconfitto l’esercito di uno dei più forti condottieri del periodo medievale”. Lo dico non per vanteria, ma a fini di verità.