Di Adriano Marinensi – Con il materiale tratto da un attento lavoro di ricerca sulla storia di Papigno, rilevante centro del ternano, il “conterraneo” Paolo Zenoni ha scritto un libro. Vi sono narrati gli evento che vanno dall’Unità d’Italia all’avvento del Podestà (1927), quando il paese perse la dignità di Comune. Un signor Comune, per ampiezza della municipalità (comprendeva Marnore, Campomicciolo, Boccaporco e l’attuale Vocabolo Staino. E’ arrivato ad avere 6000 abitanti Papigno e 35 bettole nei primi decenni del ‘900. Un interessante volume, quello di Paolo Zenoni, arricchito da numerose immagini che mostrano gli usi e i costumi dell’epoca. Vale averlo in biblioteca.
Una volta, scrivendo anch’io di Papigno, però in un articolo, l’ho definito “Il maggiordomo della Valnerina”. Il borgo sta infatti, in alto, sopra un piccolo colle e guarda il fiume, poco prima del dirupo dove la Nera riceve l’abbraccio splendodo del Velino. In vecchia data, Papigno fu un castello di difesa; nel XIII secolo, appartenne alla famiglia degli Arroni, ricchi proprietari di stampo feudale. Si trovarono a corto di risorse finanziarie gli Arroni e chiesero un prestito al Comune di Terni. A garanzia e con atto datato 1220, che faceva da titolo legale, cedettero in pegno il paese di Papigno. Che divenne proprietà dei ternani – “per il prezzo di 2.825 libbre di moneta lucchese o senese” – quando i debitori non furono in grado di rimborsare il mutuo.
Ma, Papigno ha un importante trascorso che mischia il remoto e l’attuale. A due passi si trova il millenario “Ponte del Toro” e l’altrettanto vetusta Cascata delle Marmore; stanno insieme al moderno della Centrale idroelettrica di Galleto, produttrice di preziosa (per l’ambiente) energia pulita. Fino a quasi mezzo secolo fa, tra il paese e il fiume, era ubicata la fabbrica della calciocianamide, un concime per l’agricoltura, croce e delizia dei papignesi. Ai quali forniva il lavoro, però anche le polveri, nient’affatto sottili, che annerivano i tetti delle case e le vie respiratorie. Per non parlare delle camicie bianche, sciorinate sul balcone, che talvolta, al ritiro, risultavano “adornate” di puntini grigi, per la disperazione della madre mia.
Insieme ai miei genitori e i nonni, ci sono stato di casa ch’ero fanciullo. Casa di campagna, isolata, con il grande orto attorno, pieno d’ogni bendidio. Il Canale Cervino lo annaffiava abbondantemente, il pollaio canterino, forniva i pollastri per lo spiedo. E di fronte all’uscio, l’ombrosa pergola, con l’altalena e il tavolo per la cena all’aperto. Poco distante, c’era una volta, verso la metà del ‘900. il “carburo” (inteso come stabilimento) di Papigno; e c’era pure il “Papigno calcio”, agguerrita squadra di pallone che si faceva rispettare, con le buone e le meno buone (meno, da considerare voce del verbo menare: io meno, tu meni, egli mena).
La storia della scomparsa delle famose pesche gialle (“li perzichi”), coltivate a Papigno, è nota. Meno nota la vicenda dell’azienda che adoperava la pietra cavata nei pressi, a danno della montagna. Immessa nel processo di lavorazione, diventava carburo di calcio, in parte venduto tal quale e in parte utilizzato per la fabbricazione del predetto concime chimico. Dopo la 2^ guerra mondiale, la fabbrica, di proprietà della Soc. Terni, passò prima alla Montedison, poi all’ENI e infine la chiusero nel 1973, perché, si disse, diventata obsoleta e antieconomica. Da allora Papigno, in precedenza piccolo e nero come Calimero, ha recuperato il suo profilo antico. Una Guida del Touring lo definisce “ pittoresco borgo che conserva avanzi di un piccolo castello.”
In verità, Papigno esiguo paesello è rimasto. E conserva, una dimensione urbana e sociale, come si suol dire, a misura d’uomo. Siccome quando il paese è piccolo, la gente mormora, eccola una “novella” alquanto fantasiosa che mi narrarono da bambino. La inserisco soltanto come semplice nota di colore. In posizione, orograficamente dominante, sopra a Papigno, si trova Miranda, altro simpatico grumo di poche case affastellate. Stando lassù, sul cocuzzolo, gettava ombra naturale ai sottostanti. Secondo l’opinione dei papignesi invece, a precludere loro il colore e il calore del sole, era una gigantesca pizza, cotta con acqua e farina e messa in piedi, per far loro dispetto, dagli antagonisti “mirannesi”. Occorreva demolirla e si diede il via alla battaglia – detta in vernacolo stretto – “de lu cannone de ficora”. Una grossa pianta di fichi fu svuotata all’interno, riempita con una potente carica di polvere da sparo (a Papigno, popolato da cacciatori incalliti, non mancava di certo) e una pesante palla di ferro in bocca. Il tutto ben pigiato per dare distruttiva violenza all’offesa. Quindi, pronti, puntate, fuoco! Lo pseudo cannone esplose in mille pezzi, causando, li attorno, alcuni morti e feriti. A tal vista, la conclusione fu: Se qui ha provocato tanti danni, a Miranda avrà fatto di sicuro una strage. Sarà vero oppure no, così mio nonno la raccontò.
Se questa sopra narrata è leggenda, invece è vera la presenza di Papigno e del suo scenario preindustriale, nella storia dell’arte pittorica. Se ne parla nei “Manuali per il territorio”, stampati nel 1980, a cura della Soc. Terni. “C’è una tempera dello svizzero Franz Kaisermann, datata 1820, che riproduce i caratteri del luogo nell’autunno avanzato”. Poi ci sono i capolavori di Camille Corot, ospite della splendida Villa Graziani di rimpetto al paese. Nel 1826, aveva dipinto “Papigno dalla Valle”, insieme a “Il Velino all’uscita dalla Valle di Papigno”. E’ del 1843, il famoso quadro intitolato “Valle di Papigno al mattino”. Ed ora si discute del disegno “Paesaggio con fiume” di Leonardo da Vinci, avente sullo sfondo la Cascata. In cima al Monte S. Angelo stanno i resti della Rocca che, da un lato vedono la conca ternana e dall’altra la piana reatina e il Lago di Piediluco. Sono tante le comunità della Valnerina dove si conservano il desiderio di un vivere d’altre generazioni e le atmosfere sottese di solidarietà dimenticate. Nei volti più anziani puoi leggere l’ultima saggezza della cultura popolare, annotata attraverso la memoria degli avi. L’uomo e la natura, a differenza d’altrove, sembrano essere in armonia perenne.
I residenti e i resistenti a Papigno sono ancora molti (si dice 500) malgrado l’irresistibile logoramento operato dall’inurbamento e la carenza di qualche indispensabile servizio pubblico. Poteva fare da drenaggio all’esodo, il progetto della “Cinecittà sul Nera”, avviato nel sito ex industriale, dove Roberto Benigni ha girato “Pinocchio” e il Premio Oscar “La Vita è bella”. Un peccato mortale è stato, per chi ha fede nel turismo, lo smantellamento della tranvia Terni – Ferentillo che correva lungo il fiume, entrata in esercizio nel 1901 e “uccisa” nel 1960, per allargare la strada al traffico su gomma. Siamo dunque in un’area strategica dal punto di vista paesaggistico. Di lì in avanti si ammira un territorio di grande interesse ambientale, storico e culturale. E Papigno, in livrea, sta sulla porta ad accogliere i forestieri.