Di Adriano Marinensi – Valli a capire questi miei compagni di scuola: diventano anziani e si mettono a scrivere libri. Prima Aristide Paci con la sua biografia, piena zeppa di episodi inediti e di vicende riguardanti la storia recente della sanità italiana ed umbra, conosciute attraverso le testimonianze di molti protagonisti autorevoli; ora l’altro libro, di altrettanto interesse, scritto da Gabriele Paccoi (insieme alla figlia Gisella ed al nipote Michele) dal titolo in vernacolo “Giranno pe’ Terni”.
E’ ricco di riferimenti, di immagini, di personaggi, di luoghi, di curiosità, in gran parte sconosciuti oppure dimenticati che ci presentano aspetti di una Terni recondita e descritta in maniera minuziosa e arguta. La narrazione, piana ed efficace, si avvale di inserimenti ritrovati tra i versi dei poeti dialettali. Molto è narrato traendo notizie dalla memoria popolare, spesso autenticata dalla conoscenza diretta di chi la racconta. E’ anche il frutto di una ricerca sistematica di informazioni bibliografiche che rendono il libro di buon pregio. Poi gli autori ti prendono per mano e, se hai la pazienza di seguirli, ti conducono lungo un itinerario che comprende molte delle vie di Terni, la formazione dei diversi quartieri, la valenza artistica del patrimonio edilizio antico, il processo sociale, economico, culturale degli ultimi decenni.
Una parte rilevante delle notazioni è originale. Figure caratteristiche di una ternanità che non sta nella “letteratura” ufficiale, ma ha lasciato tracce nella memoria. Sono tante e allora occorre andare per esempi: Gnipeppe, esagerato mangiatore, che il poeta Catone Petroni definisce “ruminante formidabile”. Aveva per socio Pasqualino, frequentatore incallito delle numerose osterie esistenti a Terni, al principio del ‘900. Nella seconda parte del libro, c’è l’elenco delle tante bettole che si trovavano “giranno pe’ Terni”. Si dice, ad esempio di una, quella di Valdina, che la proprietaria dovette vendere, perché “era più lo vinu che se bevea de quillu che vennea”. Quando suonava il campanone, era l’ora tassativa di chiudere le osterie. Alla sora Cecilia ch’era andata a messa, lasciando alcuni avventori a mangiare e bere, dopo il suono del campanone, fu elevata una sonora ammenda.
Nelle taverne si svolgeva la movida ante litteram: si oziava come oggi, si beveva come oggi, ci si ubriacava come oggi, le strade diventavano vespasiani pubblici, come oggi; in più c’era il gioco delle carte. E siccome la carta voleva la sigaretta, chi se lo poteva permettere “spippettava”, riempiendo di fumo gli angusti e grigi locali. Erano i soli punti di aggregazione (il “salotto buono”) per le classi minori, dove non pochi praticavano pure il turpiloquio, soprattutto blasfemo, così la bestemmia, per taluni, diventava la congiunzione tra una frase e l’altra e se provavi a cancellarla, il discorso non filava più, diventava sconnesso.
Il signor Renato di cognome faceva Cittadini. In occasione di un comizio, l’oratore iniziò: “Compagni, operai, cittadini”. Come fosse stato chiamato, il signor Renato salì sul palco, protestando ad alta voce: “Cittadini, Cittadini … cosa vuole queto da me che neppure lo conosco?” Tra le “figurine” d’epoca, c’è Anacleto, lo strillone dei giornali. Era analfabeta e chiedeva a qualche passante di leggergli la notizia più importante del giorno. Talvolta era vittima di scherzi. Durante la guerra d’Abissinia, gli fecero gridare: “Mille morti messi in fuga ad Addis Abeba”. Molto nota ai ragazzi, frequentatori dell’Oratorio di S. Francesco, la Peppa, una vecchina con il carrettino a mano, che vendeva liquirizie e caramelle: 2 misurini 50 lire, 4 misurini 100 lire. Ancora, Mimmino, al secolo Artimisio Galli. Di lui, nel libro, c’è una foto a piena pagina, che lo ritrae con la gavetta in mano (il porta pranzo dei soldati al fronte). La usava presentandosi quotidianamente in una delle caserme ternane all’ora del rancio. Poi, il pasto lo consumava – è scritto – “sopra un assettaturu”, dove faceva pure la siesta. Un altro singolare “ambulante” lo rammento anch’io. Si chiamava Spera, anziano non pensionato, pasticciere a domicilio. Frequentava, d’estate, i caseggiati di periferia con una cesta di vimini a tracolla, coperta da un velo a mo’ di paramosche, E declamava: “Paste alla crema e maritozzi, paste fresche!” Per noi bambini era una (ghiotta) attrazione.
Sto parlando – e se ne parla argutamente nel libro – di un “assetto civile” obliterato (a mo’ dei biglietti dell’autobus che non valgono più) dall’inarrestabile (?) progresso. Si ragiona di quando la classe operaia faticava di brutto all’Acciaieria, dove il maglio gigante batteva clamorosamente la mazza; quella classe operaia non andava certo in paradiso, però ci andava in bicicletta, senza far rumore e senza inquinare l’aria, in file gremite, i ritardatari pigiando i pedali come il vignaiolo – a quel tempo – acciaccava l’uva, con i piedi, nella “pistarola”. Oggi, all’interno della fabbrica, ci sono i parcheggi; allora invece le “rastrelliere” e le biciclette appese ai ganci, similmente alle mezzene dei bovini dentro il frigorifero della macelleria. Per chi veniva da lontano, funzionavano le “corse operaie”. La prima motorizzazione di massa, fu realizzata dalla Soc. Terni. Vendette ai suoi dipendenti un (pigro) ciclomotore (si chiamava “Paperino”), con ritiro del prezzo a rate sulla busta paga. Sono, queste che io ho aggiunto, “scene di vita” che – ai puri di cuore, con un bel po’ di primavere addosso – fanno tenerezza quanto quelle narrate nel libro di Gabriele Paccoi.
Dalle numerose foto, s’affacciano le immagini della città scomparsa: gli orti appena fuori la cinta daziaria, il glorioso campo di calcio di Viale Brin, il tram che attraversava il centro urbano, le mura antiche, le monumentali porte d’accesso e di difesa, molti palazzi di pregio, vecchie piazze e strade, poi massacrate dai bombardamenti. Insomma, pur senza velleità letterarie, il simpatico libro “Giranno pe’ Terni” si fa leggere con curiosità ed interesse, perché offre uno spaccato autentico di vita vissuta, appartenente ad un’ epoca che non è ancora storia, ma è ormai uscita dalla cronaca e dal costume. Sarebbe un peccato disperdere soprattutto i valori appartenenti ad una tradizione, ad un folklore locale che sanno di cultura popolare e di genuine rimembranze. Dell’albero della vita si possono tagliare i rami, ma le radici no.