Di Adriano Marinensi – Quasi dieci anni fa, nel marzo del 2009, il Centro studi “Vanoni” fu promotore di un Convegno su un tema, ancora oggi, di piena attualità. Vi parteciparono relatori autorevoli come Franco Ferrarotti, Renata Micheli, Arianna Montanari, Ermanno Taviani e l’on. Giovanni Bachelet (al padre, vittima degli anni di piombo, il numeroso uditorio volle tributare un sincero ricordo). Si parlò del ruolo della politica e dei partiti nell’era post ideologica, ancorando l’analisi ad un profilo di “concretezza ideale” e di diretto impatto sulla partecipazione popolare.
Questioni dunque che si stanno riproponendo nella attuale campagna elettorale e possono essere oggetto di una breve riflessione. Per esempio, la diatriba tra democrazia e partitocrazia, con quest’ultima che continua ad anteporre all’interesse collettivo, quello del tornaconto in termini di voti. E’ tra i frutti immaturi – si disse – della “cesura tra le istanze della base e gli interessi del potere che rischia di far prevalere l’antipolitica e il qualunquismo”. Per eliminare il pericolo, spetta soprattutto ai partiti – soggetti primari dell’organizzazione democratica – “cercare valide identità e sostituire le tramontate ideologie con nuovi valori ideali”. Partiti aperti e capaci di tradurre l’ascolto in progetti concreti, reali e realizzabili, i soli capaci di “dare legittimazione al governo del Paese e delle comunità locali”.
Al Convegno del “Vanoni” venne specificato un altro concetto fondamentale: “Le chiusure dei palazzi che contano, le impermeabilità decisionali costituiscono l’antiprincipio della democrazia e l’antitesi dello Stato popolare”. La delega istituzionale diventa un fantasma se il consenso è cercato soltanto nelle occasioni elettorali. Per di più, cercato con strumenti mediatici manipolatori d’ogni verità, così da ottenere unicamente “una adesione emotiva, non ragionata ed una delega di ridotto contenuto democratico”. Si è parlato al Convegno di “rappresentanza basata sulla rappresentazione, sulla semplice immagine, sugli effetti speciali”. Insomma un tipo di rapporto con l’opinione pubblica studiato ad arte e infarcito di lusinghe, privo quindi della “razionalità che dà contenuto al pensiero”.
Chi opera in politica ha il dovere primario di rispettare – senza infingimenti e iperboli retoriche, talvolta populiste – il cittadino che ragiona e non è quindi disposto ad accettare le millanterie degli imbonitori da piazza del mercato. Tantomeno le retoriche rissose che adombrano la notte dell’intelligenza. Scrive Machiavelli: “Il pericolo è massimo quando la sorte fa che il popolo non abbi più fede in alcuno, essendo stato ingannato dalle cose o dagli uomini”. Ai giorni nostri che “il popolo non abbi più fede”accade anche perché l’immagine della politica viene continuamente denigrata, con le opere o con le parole, dagli irresponsabili picconatori della politica stessa. I quali – insieme ai costruttori delle illusioni (per scopo di lucro elettorale) – puntano sulla diffusione del pessimismo, che rende sempre più deserta la strada verso le urne.
Ancora in riferimento alla credibilità della politica, dal Convegno emerse un altro aspetto e cioè che “l’interpretazione delle vicende sociali affidata alla logica del possibile ha lasciato il posto al relativismo pragmatico, contribuendo, di fatto, a rendere evanescente il profilo etico del dibattito”. L’ascolto degli attuali talk show (talvolta, to talk nonsense) è palese conferma dello scadimento e di una partita giocata senza nulla costruire, diversamente da ciò che la gente chiede. E chiedono i giovani per costruire il loro avvenire. Trova spazio sopra siffatti palcoscenici l’istrionismo, incapace di esprimere un disegno programmatico che vada oltre la diminuzione delle imposte, l’abrogazione delle leggi di riforma, l’aumento delle pensioni, l’estensione dei servizi sanitari al cane e al gatto di casa (la dentiera d’oro al nonno, gliela vogliamo regalare?). Di fronte a questo modo distorto di interpretare le libertà democratiche ed il senso del giusto governo, mi è parso utile richiamare alla memoria alcune indicazioni emerse dalla vecchia proposta culturale promossa, a Terni, dal Centro studi “Vanoni”, una decina di anni fa.
Ed ecco la consueta chiusura fuori tema. Sul Corriere della Sera dell’11 novembre 1938, comparve, in prima pagina ed a caratteri cubitali, questo titolo: “Le leggi per la difesa della razza, approvate dal Consiglio dei ministri”. Per il fascismo, ebbero valore, in Italia, sino al tempo della Repubblica di Salò. Furono precedute dal “Manifesto della razza”, pubblicato nel mese di agosto ’38, firmato inizialmente da 10 uomini di cultura, poi sottoscritto da altri noti personaggi dell’epoca. Nei famosi diari di Galeazzo Ciano, in data 14 luglio ’38, si legge: “Il Duce mi ha annunciato un documento sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, ma mi dice che l’ha quasi completamente redatto lui.”
A sostegno di tanta ignominia stamparono persino una rivista dalla testata emblematica: “La difesa della razza”. Ospitò – ovviamente con il dovuto rilievo – il Manifesto che fissava, in 10 punti, “le basi del razzismo fascista”. Sosteneva, tra le tante deliranti farneticazioni, che “la popolazione dell’Italia è, nella maggioranza, di origine ariana, come la sua civiltà”. E quindi, “esiste ormai una pura razza italiana” (la scimmiottatura di quella tedesca), da esternare, par di capire, orgogliosamente, in quanto “è tempo che gli italiani si proclamino razzisti”. La conclusione è lapalissiana: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana”. Ragion per cui, l’ostracismo fu esteso senza eccezione alcuna, ivi compresi eminenti scienziati. Per esempio, Emilio Segre, Enrico Fermi (aveva la moglie ebrea), Bruno Pontecorvo. Albert Einstein si dimise dall’Accademia dei Lincei.
Quella operazione bestiale ebbe due protagonisti: Benito Mussolini, l’ideatore, e Vittorio Emanuele III, firmatario dei Regi Decreti di attuazione. Tra i più miserevoli, quello riguardante la scuola: allontanò dalle aule tantissimi studenti e dalle cattedre docenti di alto valore didattico. Un ostracismo che ridusse in miseria migliaia di famiglie. Su quegli aberranti principi vennero costruiti l’odio verso gli ebrei, le delazioni, le deportazioni di massa verso i campi di sterminio. Come quella operata nel Ghetto di Roma dalla Gestapo, il 16 ottobre 1943. La storia ha fissato questi numeri: 1023 persone (tra le quali 207 bambini) furono caricate sopra 18 carri bestiame alla Stazione Tiburtina e deportate ad Auschwitz. Ne tornarono 16, 15 uomini e 1 donna, nessun bambino. Ho voluto aggiungere questa appendice alla breve nota di diverso contenuto, nell’80° anniversario (1938 – 2018) della “colonna infame”, rappresentata dalle leggi razziali fasciste.