di Adriano Marinensi – E’ appena cominciato il 2018 e l’annuale virus dell’influenza ha messo a letto un gran numero di persone d’ogni età. Malgrado i vaccini svolgano una funzione sanitaria preventiva ed efficace, i no – vax (razza spregiata) continuano a perseverare nel loro rifiuto e finiscono in tanti sotto le coperte, con un costo sociale, per la collettività, assai elevato. Al conto finale, ci scapperà purtroppo pure qualche morto. Nulla a che vedere comunque con l’influenza che, esattamente un secolo fa, nel 1918 – 19, causò il peggiore disastro sanitario che una malattia abbia mai provocato. Forse la penicillina avrebbe potuto ridurre l’impatto – mortalità. Forse si, forse no, stante la sua efficacia prevalentemente antibatterica. D’altro canto, Alexander Fleming la scoprì 10 anni dopo.
La pandemia del 1918, è passata alla storia della medicina con l’appellativo di febbre spagnola: colpì un miliardo di pazienti nel mondo e ne uccise circa 50 milioni. C’è addirittura chi ne ha contati il doppio. Quasi non bastassero i caduti durante la 1^ guerra mondiale, la spagnola, in Italia, ne aggiunse un altro mezzo milione, su 4 milioni e mezzo di contagiati. Si ebbero tre ondate, diverse per gravità: nella primavera 1918, poi nell’autunno, infine a dicembre e si protrasse sino all’inverno 1919. Dal Ministero dell’Interno, nel novembre 1918, diffusero alle Prefetture un documento della Commissione medica che diceva: “L’attuale forma epidemica, altro non è che l’influenza identica a quella che infierì e fu felicemente superata, negli anni 1889 – 90. Nessun motivo quindi di particolare preoccupazione”. Poco dopo, la polmonite cominciò a mietere vittime. Comparvero, pure allora, i “consigli per gli acquisti”: Per combattere la febbre spagnola, usate il dentifricio Zarri. Oppure: Contro la febbre spagnola, adoperate la celebre acqua di colonia PIM, uccide i microrganismi. Ancora: Febbre spagnola, la pozione Arnaldi immunizza l’organismo e previene l’infezione. Quando si cominciò a morire in tanti, sui giornali, i necrologi parlavano di decessi “nel rigoglio della giovinezza” oppure “per un fatale improvviso morbo”.
Parve a molti la riproposizione della peste, scoppiata intorno alla metà del XIV secolo, che costò la vita ad un terzo della popolazione europea. Di quella morte nera un cronista svedese scrisse: “Le campane non suonavano più e nessuno piangeva. L’unica cosa che si faceva era aspettare di morire, chi guardando fisso il vuoto, chi sgranando il rosario”. C’è l’altra peste del 1630, a Milano, raccontata da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi. Portata – dissero – da un soldato italiano, il quale entrò in città con un fagotto di panni infetti, rubati ai Lanzichenecchi invasori. Il “processo agli untori”, Manzoni lo descrive e stigmatizza nel saggio “La colonna infame”. La colonna eretta al posto della casa, rasa al suolo, di proprietà del barbiere Gian Giacomo Mora, accusato di essere un propagatore di peste, cioè uno dei tanti “untori”, vittime di dicerie e di giudizi sommari. I “monatti” invece, le cronache riferite al tempo, li definirono come una sorta di eroi, molti destinati al sacrificio della vita, perché si incaricavano di trasportare i cadaveri ai lazzaretti, diventati cimiteri a cielo aperto.
Comunque, la peggiore malattia, diffusa in modo globale, rimane quella di un secolo fa. Comparve misteriosamente ed altrettanto misteriosamente scomparve. All’improvviso esplose, nell’estate del 1918, con una incontenibile virulenza e l’appellativo derivò dal fatto che per primi ne dettero notizia i giornali spagnoli, non perché fosse nata in Spagna. Non fu il virus a causare direttamente la strage, quanto, in tantissimi casi, gli “effetti collaterali” nell’organismo e le condizioni igienico – sanitarie del mondo di allora. E proprio per lo stato penoso nel quale si viveva in trincea, il fronte di guerra divenne un incubatore. Però nel silenzio delle autorità militari – a parer loro – per non fiaccare ulteriormente lo spirito dei combattenti, già provato dal lungo conflitto.
Un mistero è rimasto pressoché indecifrato: Perché preferì i giovani tra i 18 e i 30 anni, mentre gli anziani, solitamente i più esposti ai pericoli di questo tipo di infezioni, ne rimasero pressoché indenni? La risposta, i virologi hanno cercato di darla così: Siccome gli anziani erano stati colpiti, nel 1889, dalla cosiddetta “influenza russa”, poco aggressiva, avevano sviluppato difese immunitarie contro uno dei bacilli della “spagnola”. Che, al primo insorgere, fu pure essa alquanto leggera, tanto da essere denominata l’ “influenza dei tre giorni”, in quanto sembrava esaurirsi in così poco tempo. Poi, con straordinaria celerità cominciò ad uccidere, divenendo un fenomeno presente in ogni parte del pianeta. I pericoli corsi durante i primi anni del ‘900, si sono riaffacciati di recente (2009) quando l’aviaria ha causato quasi 300.000 vittime.
In tema di antichi anniversari memorabili, eccone un altro, però di opposta connotazione. Me lo ha suggerito – seppure con qualche ritardo – un francobollo, comprato per gli auguri natalizi. E’ stato emesso per celebrare il 70° dalla fondazione del Totocalcio. La “ruota della ventura”, oggi l’hanno soppiantata il Gratta e vinci, il Superenalotto ed altri giochi divenuti patologici, che hanno fatto diventare lo Stato un biscazziere. Così, il tempo del Totocalcio è scaduto. Eppure, dal dopoguerra in avanti, per tanti anni, ha rappresentato lo strumento usato dalla dea con la cornucopia per l’onirico fantasticare degli italiani. Merita quindi alcune righe di ricordo.
Nacque da una idea venuta in mente a tre giornalisti sportivi, fondatori della Sisal. Si chiamavano Massimo Della Pergola, Fabio Jegher e Geo Molo. Giocammo la prima schedina, il 5 maggio 1946. Occorreva indovinare il risultato di 12 partite di calcio (dopo diventarono 13) con il sistema dell’1 X 2. Nell’immaginario collettivo “fare 12” fu il grande desiderio popolare e il segno della felicità. Effettivamente, il Totocalcio di milioni ne ha distribuiti tanti.
Al momento della emissione del francobollo commemorativo, l’umbra Luisa Todini, Presidente di Poste Italiane, ha detto: “Intere generazioni hanno legato il sogno di una vita migliore alla compilazione della schedina. L’emissione del francobollo è dunque il giusto omaggio ad un fenomeno di costume che occupa un posto importante nella nostra memoria”. Soprattutto, nella memoria di quei tanti che, nei primi anni, rifuggendo dalla miseria del conflitto mondiale, si sono aggiudicati la posta. Talvolta, da capogiro. Qualcuno ci ha perso le staffe, però molte famiglie si comprarono la casa e vissero felici e contente.