Un Beethoven immane sulle spalle di Filippo Gorini, un pianista poco più che ventenne, ieri sera, in una sala dei Notari un po’ spoglia.
La Sonata Hammerklavier di Beethoven la si affronta solo se c’è un buon motivo, il primo dei quali è possedere un “vissuto” di spessore.
Da parte sua il pianista bergamasco vanta una vittoria al concorso Telekom di Bonn (2015) e la incisione discografica delle Variazioni Diabelli, che costituiscono un’altra affermazione di Beethoven sul materiale di cui è fatta la musica.
In evoluzione frenetica il maestro di Bonn è sempre più sulle linea di una assunzione “assoluta” di un suono cosmico destinato a naufragare, leopardianamente, nel finale pulviscolare della sonata op. 111.
Tecnica a parte, che deve pur esserci se vinci concorsi internazionali, il giovanissimo Filippo ha evidenziato una incredibile sensibilità in quell’oasi di sogno che è l’Adagio Sostenuto, un movimento che da solo dura quanto il resto della Sonata. Qui un mormorio e un fruscio di suono hanno sottolineato ogni istante di questa autentica discesa agli Inferi, modulata con una concentrazione rara in un così giovane esecutore.
Quel che è accaduto negli altri movimenti, già dai primi squillanti accordi, è che il delizioso Filippo ha voluto attenersi alle indicazioni di metronomo apposte dallo stesso Beethoven. Tutti le considerano assurde, e non ci sarebbero motivi validi per sostenere il contrario. Di qui un continuo scivolare sui motivi, sui temi, sugli incroci, con la sensazione di essere al limite delle possibilità. Oltretutto nel fugato finale, qualcuno ha notato, spartito alla mano, la sparizione di un certo numero di battute.
Per i generosi perugini, come sempre, va tutto bene, e gli applausi fioccano fino a ottenere due fuori programma, un lungo Schubert degli Improvvisi e un bel Brahms collerico e innervato.
Nella prima parte della serata, dopo un Kurtag messo là per iniziare da dove si sarebbe approdati, la “modernità” tanto invocata da Beethoven, ecco un fantastico Kreisleriana di Schumann. Anche qui oasi di cantabilità e di contemplazione da parte di Eusebio, l’alter-ego della schizofrenia dell’autore. Quando Gorini cavalca Florestano, c’è qualche margine di eversività.
Evidentemente il giovane Gorini è un dotatissimo meditativo di cui si deve distillare la poeticità.
Risultata peraltro evidente nel finale, quando maestro Kreisler, ossia Hoffmann, va a perdersi nei meandri della visionarietà. Bellissimo.
Stefano Ragni