di Francesco Castellini – Notizie rincuoranti per chi è affetto da cardiopatia. Una arriva dall’America, dove il 25enne Stan Larkin, prima di beneficiare di un trapianto, ha vissuto senza cuore per 555 giorni grazie ad una “pompa” artificiale alimentata da uno zainetto esterno. Stan, racconta ScienceDaily, è diventato il primo paziente in Michigan a utilizzare il dispositivo noto come SynCardia. Il successo ottenuto ha suggerito che l’organo artificiale possa essere utilizzato per sostenere altri pazienti con insufficienza cardiaca, mentre aspettano un donatore.
Ma una notizia ancor più eclatante arriva dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, dove nel maggio scorso è stato impiantato un cuore meccanico permanente ad un ragazzo di 15 anni. Il giovane è “testimonial” diretto di un progetto innovativo che utilizza dispositivi di assistenza cardiaca estremamente funzionali e adattabili all’esigenze dei pazienti, grazie a sensori interni e alla tecnologia wireless. Si chiama SensorArt e programma la realizzazione del cuore artificiale del futuro. Frutto del lavoro di una ricerca europea coordinata da studiosi italiani. Ma di cuore, dei suoi mali e dei rimedi possibili, ne parliamo con un esperto di lungo corso, il professor Maurizio Bentivoglio, per molti anni responsabile dell’Ambulatorio di Cardiologia e Fisiopatologia Cardiovascolare del Santa Maria della Misericordia e docente di Cardiologia all’Università di Perugia.
Il dottor Bentivoglio. “Oggi – afferma il dottore – il trapianto di cuore è l’unica possibilità di sopravvivenza che rimane a milioni di persone. Ma non sempre è possibile sottoporsi a questo intervento, soprattutto per il fatto che non c’è un numero di donazioni sufficienti. Per questo ci si sta sempre più rivolgendo alla bioingegneria. In tutto il mondo occidentale finora sono stati impiantati circa 600.000 dispositivi per l’assistenza ventricolare: vere e proprie pompe meccaniche capaci di sostituire il cuore quando ormai non è più in grado di mantenere il ritmo. Ma nella maggior parte dei casi si tratta di strumentazioni provvisorie, definite “ponte”, capaci di accompagnare il paziente fino al momento del trapianto”.
Ma quali pazienti potranno essere trattati con tali accorgimenti?
“In genere tutti quelli che necessitano di un trapianto di cuore. Che sono poi quei malati affetti da scompenso cardiaco. Con questo termine si indica una condizione patologica grave che per diversi motivi (cardiomiopatia dilatativa, miocardite, ischemia, cardiomiopatia post-ischemica e post-ipertensiva) impedisce all’organo di fare il proprio dovere, nonostante farmaci o interventi cardiochirurgici”.
Qual è la sua posizione nei confronti del cuore artificiale?
“Credo che rappresenti la soluzione più efficace. E ci siamo molto vicini. Tecnicamente non è difficile. La fonte d’energia durevole è rimasto il vero limite da superare, più che la meccanica in sé. Ma sono certo che con la miniaturizzazione dei dispositivi e l’innovazione dei materiali si arriverà molto presto a realizzare uno strumento ancora più leggero e più piccolo, in grado di assicurare una qualità di vita ed una estetica migliore”.
Ricordiamo a questo proposito che quando si parla di cuore artificiale, si intende un dispositivo che si applica all’organo danneggiato e non che lo sostituisce totalmente.
“Sì, ma si sta prospettando la soluzione di un cuore nuovo. Con sensori che verranno inseriti all’interno del torace del paziente. E dunque non ci sarà più una centralina esterna ma piuttosto un sistema wireless, anche per la batteria, che consentirà di eliminare fili e cavi, causa di frequenti infezioni, che sono uno tra i principali motivi per cui questi impianti a volte falliscono”.
Si dice che il progetto SensorArt potrebbe essere pienamente operativo fra sei mesi; dunque salvare la vita a ben 5 milioni di persone e migliorarne la qualità a molti altre. Ma è bene ricordarlo, il trapianto è il rimedio ultimo, in mezzo ci sono tante altre soluzioni.
“Bhè, in questi ultimi decenni in cardiologia abbiamo assistito ad una trasformazione radicale. Io poi mi sono occupato prevalentemente di ipertensione. E quando mi sono laureato c’erano solo diuretici, la Reserpina, e poco altro. E i pazienti ipertesi finivano in dialisi o con l’ictus. Negli anni si è visto lo sviluppo di trattamenti che hanno cambiato sia lo stile che le prospettive di vita. Mi riferisco ai Betabloccanti, agli ace inibitori, agli antagonisti recettoriali. E poi c’è tutto il fronte della chirurgia che ha fatto dei progressi enormi. I successi più eclatanti ci sono stati sia per quanto riguarda l’infarto miocardico acuto, le angioplastiche e le coranografie d’urgenza, la possibilità di ricanalizzare e rivascolarizzare le coronarie, per le aritmie i tipi di pacemaker, nei pazienti con le canalopatie che sono poi in fondo una scoperta relativamente recente, con la possibilità di impiantare un defibrillatore, e molto altro ancora. Ma allo stesso tempo non bisogna dimenticare che anche un altro fronte ha contribuito molto a disegnare un quadro migliore, e mi riferisco all’efficacia della prevenzione”.
In effetti c’è una popolazione che si sta educando, che sta prendendo coscienza, che sta lentamente riguardandosi, che ha capito che conta l’alimentazione, il movimento fisico, il poco stress.
“Continuo a raccomandarmi: la prevenzione prima di tutto. Prima che questo cuore si danneggi. E comunque da quando si ammala a quando si arriva alla necessità di trapianto ci sono tante tappe in cui si può intervenire e con sempre migliore efficacia”.
A riguardo conta molto la buona informazione. Qual è stato e qual è il contributo di Internet?
“Purtroppo Internet veicola anche informazioni non vere. Spesso c’è una dietrologia che impera. E’ più facile credere alle stupidaggini. Ogni paziente si è guardato su Internet la sua malattia. Arriva convinto di saperne più di te e valuta la diagnosi in base al fatto che il medico gli dica le stesse cose che ha letto in Rete. Tanto che ogni tanto devo intervenire con una frase che fra medici ci diciamo spesso: guardi che il signor Google non è laureato”.
Questo è un aspetto, ma c’è anche da dire che Internet ha avuto il merito di accelerare le informazioni, mettendo in Rete le conquiste, condividendo i traguardi raggiunti.
“Sì, è indubbio. E forse anche grazie a questo che è un po’ scomparsa la figura del medico “padreterno” da cui scendevano giù perle di verità. E questo è un bene. Perché se è vero che il cuore assomiglia ad un marchingegno ingegneristico perfetto, e quindi il più delle volte nel tentativo di riaggiustarlo e di rimetterlo in funzione prevale un approccio meccanico, è altrettanto certo che rompere certe distanze aggiunge valore alla diagnosi e alla cura. E allora mi sento di dover dire che se i progressi tecnologici hanno fatto tanto per il cuore, l’approccio diretto e umano nei confronti del malato non può essere sostituito. Con i miei pazienti c’è forte empatia, me li ricordo tutti, e ogni volta mi piace venire a conoscenza anche di tutti quegli aspetti che fanno da corollario alla vita del malato e che poi di certo influiscono sulla sua salute. Solo un approccio più umano aiuta il paziente a stare meglio”.