«Sono parte inglese e parte-nopeo». Inizia subito bene Marco Beasley che unisce il tipico humor inglese, ereditato dal padre, alla sua infanzia napoletana.
Una miscela particolarmente pungente, sarcastica, umorale e sentimentale. Tutto quanto si può metabolizzare sotto le nuvole della Montagna, il sacro-sacrato Vesuvio che sta lì, come un felino in agguato, a godersi le occhiate preoccupate che ogni giorno gli lanciano gli abitanti della città la cui storia e il cui futuro sono ancora nelle mani della Sibilla Cumana. Ma siccome bisogna pur vivere, ceneri e lapilli permettendo, ecco che la più bella e importante città della Magna Grecia si è dotata di un patrimonio di canzoni che sono l’antidoto a ogni paura.
«Chi teme, canta» – scriveva Leopardi e i napoletani, tremori o non, cantano da sempre.
C’erano ancora gli Spagnoli, gli Aragonesi, quando fioriva la villanella e poi c’è stato quell’oceano di musica straripato dai Conservatori mentre spalancava le sue porte il teatro san Carlo, magione canora di un re che, unico in Italia, vantava una dimensione europea.
Ma chi vuole farsi affascinare dalla magia di Napoli deve sentirsi addosso le note delle sue canzoni, quelle che il mondo intero conosce e che tutti i tenori che aspirino a una popolarità inossidabile cercano di intonare. Con effetti spesso paradossali, perché se la cadenza napoletana non ce lì’hai, non puoi imitarla. Neanche se ti chiami Bocelli.
Il segreto di quella che non è sbagliato indicare come un lingua Beasley ce l’ha e sa modularla con tutta la grazia e la leggerezza che gli derivano dalla sua formazione classica, specialistica poi, per quanto riguarda il repertorio antico. E se non andiamo errati, anni fa, dovremmo averlo visto anche tra le fila del nostro Micrologus, prezioso elemento della filiera della musica medievale.
Ritrovarlo nella veste di “concertino” accanto alla chitarra di Antonello Paliotti è qualcosa che ci ha fatto guadagnare un’oretta di prezioso buonumore, di gentilezza e di charme: modulare una voce educatissima sui registri della leggerezza e del mormorio a fior di labbra è stata la più bella lezione che Beasley potesse offrirci. Mai un urlo, mai un accento sgraziato, mai una dilatazione, ma solo carezze vocali, con tante spiegazioni di cosa ci apprestavamo ad ascoltare, una lettura di de Filippo e un invito al pubblico a partecipare a “M’aggia curà”. E che dire del Surdato ‘nnamurato, sussurrato come avrà fatto l’anonimo fante napoletano che, nella sua trincea, contava le ore che lo separavano dalla morte.
Poco più di un’ora per un percorso storico e documentativo, una grande lezione di quando l’erudizione di mette al servizio della bellezza.
Siamo partiti da “Te vojo bene assajie” e abbiamo proseguito con Reginella, puntando decisamente alla contemporaneità con Murolo (magari lui avesse cantato così!), Roberto de Simone, i Cottrau, con l’immancabile Santa Lucia miscelata con la versione più antica, l’esplosiva Gapparia di Rodolfo Falvo.
Si sa che tutta questa musica veniva spesso scritta sui tavolini dei caffè, tra una tirata di sigaretta e un sorso di aroma. Poca dottrina, molta tradizione, uomini che fingevano ogni sorta di disperazione d’amore. Grande assente la voce della donna, tanto amata, per quanto esclusa-reclusa.
Non si poteva non inserire un Terra Mia di Pino Daniele, e quando scivola sui versi di “Munastero ‘e Santa Chiara” la voce di Beasley si fa quasi impercettibile. In assoluta controtendenza contro tutto ciò che abitualmente si fa con questi gioielli preziosi, per quanto fragili.
E’ una sensazione forte quando si arriva a Malafemmena di Totò. Il concerto finisce e lascia un vuoto. Ci si strappa con dispiacere all’incanto creato da due musicisti raffinati che hanno ricondotto alle sue origini nobili la melopea misteriosa che da sempre seduce il mondo intero.