Di Adriano Marinensi – Questo “raccontino leggero, leggero”, reca una data: sei, sei del duemilasei (6 giugno 2006). Ha per tema i giochi della mia prima giovinezza e quelli del mondo che oggi gira. Vorrei esaminarlo da diversa angolazione, per capire le differenze palesi, anche dal punto di vista sociale, tra il tempo d’allora, il mio tempo, e il tempo attualmente in vigore. Il fatto narrato non trae avvio dal trapassato remoto ed è veramente accaduto. Illustra il confronto impari tra il pallone di pezza e il computer oppure il cellulare; il gioco miserello e dinamico di alcune decine d’anni fa e l’altro “ricco”, però statico di oggi. Che purtroppo – almeno dal personale punto di pensiero – falsifica il modello di vita delle nuove generazioni. E non salva manco quelli di mezza età, per diverse ore e differenti occasioni al giorno (pure durante i pasti), sfruculiano il tablet o il telefonino.
Uno dei grandi sogni di quando fummo ragazzi (pensavamo ognuno “I have a dream”) – correvano gli anni malagevoli dell’immediato dopoguerra – e giocavamo al calcio con una palla di pezza riempita di stracci; il sogno per noi era di poter avere un pallone di cuoio. Che fosse almeno simile a quello usato dai rosso – verdi della “Ternana” allo stadio di Viale Brin. La “Ternana” di Ukmar, di Piscini e Caldarulo e poi, più avanti, di Tossio e Cardinali. Insomma, ‘the dream’ era quel pallone lì, veloce e rotondo, mentre il nostro moscio e rotolava a fatica. E neppure rimbalzava. Una faticaccia mandarlo avanti e indietro sul campo ch’era la strada, sterrata e polverosa. D’estate, giocavamo ogni giorno interminabili e chiassose partite, in quanto altro spasso non v’era. Sempre con in testa il sogno: il pallone di cuoio n. 5. Munito di camera d’aria, gonfiabile con la pompa della bicicletta e lo spillo. E chiuso, in un punto, da uno spago sottile intrecciato, un legaccio che, se lo prendevi in mezzo alla fronte, ti spremeva “guaiti” di dolore.
Decidemmo – ci volle coraggio – di mettere in comune i risparmi di molte settimane per comperare il sogno. Poche monetine al giorno (qualcuna ricavata dalla vendita dei ciclamini, numerosi in un boschetto di presso) che, in capo ad un paio di mesi, fecero la cifra necessaria all’acquisto, presso un venditore del quale non ricordo il nome, ma il cognome si, Ciotti. Aveva il negozio di articoli sportivi, a Terni, lungo il Viale della Stazione e non prese per niente bene il dover contare tutti quegli spiccioli per l’acquisto di una sfera in pelle di “modesta fattura”, in quanto modeste – gli dovemmo dire – erano le nostre finanze.
Forse lo mosse a compassione il gruppetto di pigolanti ragazzini che esternava una voglia matta di prendere a calci un pallone vero e non più di pezza. Ragazzini presentatisi nel suo negozio recando una scatola di cartone, piena zeppa di tribolate economie. Uscimmo con il sogno in mano e – lo si può capire – i cuori in tumulto. Il pallone di cuoio n. 5 era nostro. Di modesta fattura, però nostro. Dall’indomani, la vita calcistica sarebbe cambiata da così a così. L’addio definitivo alla palla di pezza era evento straordinario da celebrare con la massima esultanza.
Per prima cosa, toccava assegnare a qualcuno di fiducia, il delicato compito di custodire il sogno e diligentemente ingrassarlo con il lardo sottratto in cucina. Anche per spianare un po’ le cuciture, in quanto costruito a spicchi assiemati tra loro. Compito difficile sarebbe stato pure difenderlo dalle mire e dalle invidie di altri ragazzi parimenti spiantati. Inoltre, si dovette discutere la scelta del nuovo campo di calcio (si fa per dire). La ruvida e polverosa strada, usata sino a tal momento, non era più degna di un giocattolo così prezioso e delicato. Per di più, il vecchio campo stradale (una cinquantina di metri in tutto) correva tra due file ininterrotte di orti, protetti dal filo spinato, tipo reticolati della guerra 15 – 18. E, di conseguenza, pericolo mortale per il sogno. Si decise per un’altra strada meglio messa in arnese, anch’essa, allora, poco o punto frequentata dal traffico a motore.
Certo, non somigliava manco lontanamente alla “pista” (lo stadio di Viale Brin era chiamato così) che, pur essendo in terra battuta, una sua dignità ce l’aveva, oltre ad una superficie abbastanza amica dei palloni di calcio. Non fu altrettanto amica del nostro n. 5 la strada prescelta e la tragedia, di lì a poco, ci venne sadicamente addosso. Il pallone – che era si di cuoio, ma di “modesta fattura” – cominciò a dare segni di preoccupante cedimento. Prima qualche piccola protuberanza, poi alcune cuciture allentate, insieme ad abrasioni che mostravano il colore della sottostante camera d’aria. Insomma, per farla corta, il sogno finì per squinternarsi, svanendo in un afflosciamento senza scampo; e facendoci piangere (con lacrime vere) la sua prematura scomparsa. Fu così che, l’animo rattristato e il cuore depresso, dovemmo ritornare al pallone di pezza. Una volta addirittura, usando la papalina da notte del nonno d’uno di noi. Si giocava così, in “arte povera”, però il rimpianto mi fa dire con il poeta: “Or non è più quel tempo e quell’età”.
Post scriptum: La lettura di quanto sopra – stante l’anacronistica sua collocazione nel mondo che oggi gira, fatto di innumerevoli diavolerie – è sconsigliata ai giovani, sovente impegnati nella pratica (intellettualmente “manipolatoria”) del messaggiamento telefonico. Rischierei d’essere da essi sbertucciato. Colgo l’occasione per una umile richiesta: siccome, io pedone, ho evitato più volte, per un pelo, la collisione all’incrocio con qualche altro pedone estraniatosi dalla realtà circostante, in quanto in preda al compulsivo impegno tecnologico (il cellulare ultramoderno davanti al naso); ritengo sarebbe cosa buona e giusta, strada facendo, mostrare un friccico d’attenzione in più, onde scongiurare spiacevoli quanto dolorosi sinistri. Magari rinunciando a qualche SMS, non indispensabile ed urgente. Grazie.