di Walter Leti – Il referendum del 4 Dicembre, al di là dell’esito e dell’infiammato dibattito che lo ha preceduto in Parlamento e nelle piazze, ha comunque conseguito un risultato importante. Si è imposto prepotentemente il tema dell’effettiva partecipazione del popolo alle decisioni che ne determinano concretamente il vissuto quotidiano. La nostra democrazia è imperfetta, una sensazione ormai largamente diffusa nel Paese che trova un preciso riscontro nell’autorevole e universalmente accettata graduatoria elaborata ogni due anni dall’unità di esperti dell’Economist, nota come “Democracy Index”.
La classifica censisce lo “stato di democrazia” di 167 Paesi sulla base di parametri oggettivi. L’Italia si trova attualmente in una condizione di “flawed democracy”, vale a dire di democrazia difettosa, collocata al di sotto di quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea. La nostra è una repubblica parlamentare, conseguentemente il potere sovrano è esercitato dai rappresentanti liberamente eletti dal popolo che siedono in Parlamento. La Costituzione prevede comunque alcuni strumenti che, almeno sulla carta, consentono ai cittadini l’accesso a forme di democrazia diretta. Parliamo in primis del referendum abrogativo di leggi varate dal Parlamento, un procedimento piuttosto macchinoso che richiede la presentazione di 500.000 firme da raccogliere entro tre mesi, un quorum di votanti superiore al 50% e necessita di ingenti risorse organizzative ed economiche.
Aggiungiamo a questo che sono escluse dal referendum abrogativo le leggi di bilancio tributario, di amnistia, di indulto e le ratifiche dei trattati internazionali. In virtù di quest’ultimo punto (Art. 75 della Costituzione) sarà impossibile indire una consultazione popolare per contestare le normative UE che fanno dell’Italia un Paese a sovranità limitata in materia economico-monetaria, nella politica estera e sul tema drammatico dell’equa ripartizione in Europa delle masse di migranti che approdano quotidianamente sulle nostre coste. Va da sé che è fuori da ogni possibilità l’ipotesi di far decidere il popolo sull’opportunità di rimanere o meno nella Comunità. Oltre al recentissimo referendum confermativo, obbligatorio per la modifica della Costituzione, sono previsti altri due strumenti di democrazia diretta: la mozione di iniziativa popolare e la petizione. La prima consente di presentare al Parlamento un disegno di legge supportato da almeno 50.000 firme. La discussione della proposta e la delibera restano di competenza dell’organo legislativo. Di fatto le leggi di iniziativa popolare non arrivano neanche alla discussione dato che il Parlamento dà sistematicamente la precedenza alle leggi di iniziativa governativa o parlamentare. L’ultimo strumento a disposizione del popolo è la petizione, prevista dall’Art. 50 della Costituzione che recita testualmente: ”Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”. Questo strumento non si è mai potuto applicare nella pratica, non essendo mai stata varata dal Parlamento la necessaria legge di regolamentazione. Sono evidenti, pertanto, le difficoltà o, peggio, i veri e propri ostacoli che vengono non casualmente frapposti all’effettivo esercizio di forme democrazia diretta. Da questo stato di cose ha origine la sensazione sempre più diffusa di uno scollamento fra la società civile e i suoi rappresentanti.
La classe politica, nel suo insieme, etichettata spesso significativamente come “casta”, è vista, in un clima di crescente sfiducia, come un organismo autoreferenziale, una sorta di oligarchia chiusa in se stessa. I partiti si presentano al giudizio dei cittadini ogni 5 anni con programmi seducenti, utili a ottenere voti e seggi, ma potranno disattendere se lo riterranno opportuno le promesse fatte in campagna elettorale grazie alle quali hanno ottenuto consensi e poltrone. Questa facoltà è prevista esplicitamente dall’Art. 67 della Costituzione che esclude il vincolo di mandato. Il parlamentare, infatti, nell’esercizio delle sue funzioni, opera nell’interesse supremo della Nazione e non di quella porzione di elettorato che lo ha scelto.
Questo principio, nobilmente garantista nelle intenzioni dei Padri Costituenti, è diventato molto spesso nella prassi parlamentare l’alibi dietro cui si è rifugiato il trasformismo di alcuni soggetti politici. Il vincolo di mandato, negato per quanto detto, nei confronti dell’elettorato è rinato poi come dipendenza stringente verso il partito di appartenenza da cui si è condizionati per la propria individuale sopravvivenza politica. Come sarà possibile allora colmare il solco fra cittadini e classe politica? Giuristi e costituzionalisti sono impegnati su questo versante. Si parla di conferire nuova vitalità e reale efficacia operativa agli istituti già previsti dal nostro ordinamento come la citata proposta di legge di iniziativa popolare e la petizione, rimaste finora lettera morta. Dando uno sguardo all’estero, la Svizzera, dove si tengono mediamente una decina di referendum all’anno, realizza il massimo esempio di partecipazione popolare alle decisioni del governo. Può essere un riferimento, da riadattare comunque alle peculiarità del nostro Paese, attuando una radicale modifica della nostra Costituzione. Una breve citazione merita, a titolo di curiosità, quella che, secondo una certa futurologia politica, sarà la soluzione ideale negli anni a venire. Ci si riferisce all’e-democracy, cioè la democrazia digitale che dovrebbe permettere ai cittadini di esprimersi attraverso un sistema dedicato, con la semplice pressione di un pulsante. Esperimenti in questa direzione sono già stati effettuati, limitatamente a piccole comunità locali. L’applicazione su più larga scala, fino al livello nazionale comporta prevedibilmente sia formidabili problemi tecnologici che di opportunità. Al momento la e-democracy appartiene alla fantapolitica.