Di Adriano Marinensi – Uno dei massimi punti d’infamia, conquistato dalle Brigate Rosse, ha un nome e cognome: è l’ assassinio di Aldo Moro. Due date e due strade. La prima data è il 16 marzo 1978, quando il Presidente della D. C. fu rapito e i 5 Agenti di scorta uccisi in Via Fani, nel Quartiere Trionfale di Roma. La seconda, il 9 maggio dello stesso anno, quando il corpo di Moro venne fatto ritrovare in Via Caetani, a poca distanza dalle sedi della D.C. e del P.C.I. La rimembranza riguarda soprattutto i giovani perché facciano memoria di una vicenda che mise in pericolo la libertà e la Repubblica.
Tra quei due terribili episodi, 54 giorni di crucci e di angustie, di depistaggi, di false verità, di “questioni di principio”. E un interrogativo rimasto senza risposta: l’ostaggio poteva essere salvato? Via Fani è il luogo simbolo della sconfitta dello Stato democratico e Via Caetani l’ara sacrificale di un Politico e della politica. Lo Stato, titolare della Magistratura inquirente, dei Servizi segreti, della Polizia, dei Carabinieri, prima, durante e dopo quei 54 giorni, fu messo in scacco da un “esercito di senza patria”, capace soltanto di delitti efferati. Fors’anche nel silenzio assenso di qualche “burattinaio” d’oltreoceano o di più manovratori di scena, nascosti dietro le quinte di un pessimo teatro dell’orrore. Certo, la dietrologia non ha diritto di cittadinanza in un sistema di vera e trasparente democrazia, però taluni episodi, con le loro opache implicazioni, i porti delle nebbie, i dulcamara, offrono il fianco a qualche recriminazione. Oltre a perpetuarsi nel tempo e pretendere la ricorrente memoria. Sono passati ormai quasi 40 anni, ma la storia patria ha fissato, in modo imperituro, quelle date, quei luoghi e quei fatti, sopra pagine indelebili e grigie.
Il 1978 fu un anno pieno di avvenimenti rilevanti: la morte di due Pontefici, Paolo VI (6 agosto) e Giovanni Paolo I (28 settembre), le dimissioni di Giovanni Leone da Presidente della Repubblica, a seguito delle accuse, di coinvolgimento nello scandalo Lookheed poi rivelatesi false. E ancora l’elezione di Sandro Pertini al Quirinale (8 luglio), il PCI non più all’opposizione. I socialisti che sostituiscono, nel loro simbolo, la falce e martello con il garofano.
La mattina del 16 marzo, Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio, esce di casa per andare in Parlamento a presentare il nuovo Esecutivo. Anche Aldo Moro, lo stratega che quella alleanza di governo ha costruito, sta recandosi a Montecitorio per partecipare all’importante seduta. Viaggia su una 130 blu seguita dalla scorta. In Via Fani, un’auto frena di colpo e subisce il tamponamento da parte di quella di Moro. E’ il segnale. Una gragnola di colpi di mitra si abbatte fulminea sulle due vetture. Sei uomini dello Stato vengono uccisi e il Presidente D.C. caricato su un’altra auto, che fugge verso la Camilluccia. Tutto si è svolto rapidamente intorno alle 9 e senza scampo per nessuno. La notizia di quanto è avvenuto in Via Fani arriva, come un fulmine in Parlamento e spazza via l’Ordine del Giorno. Si pensa soltanto a ridare subito al Paese un Governo. Andreotti ottiene la fiducia, la mattina alla Camera, (soltanto 30 voti contrari) e il pomeriggio al Senato (5 contrari). Nota a margine: nel nuovo Esecutivo, l’Umbria è rappresentata dal Deputato Franco Maria Malfatti, Ministro delle Finanze. Ai massimi livelli della D.C. c’è, da alcuni anni, l’altro umbro, Filippo Micheli, Segretario Amministrativo nazionale.
A Montecitorio, più che l’aula, si anima il “corridoio dei passi perduti”: emozioni che si rincorrono, visi stravolti. Qualcuno grida: “E’ una dichiarazione di guerra”. Altri invocano la pena di morte. Ci si rende conto che si tratta di una delle giornate più buie della Repubblica, pari a quella del 1948, quando fummo sull’orlo della guerra civile per l’attentato a Palmiro Togliatti, compiuto il 14 luglio dallo studente di destra Antonio Pallante. Il clima politico italiano, durante i primi mesi del ’78, risultava in subbuglio per via delle nuove strategie messe in campo, che avevano visto protagonisti soprattutto Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Clima politico avvelenato. Si stava cercando di identificare un misterioso personaggio, denominato Antelope Cobbler, referente della transazione finanziaria con l’industria americana Lockheed. Un affare internazionale di tangenti. Qualche giorno prima del rapimento, un quotidiano italiano uscì con questo titolo: “Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro”. Fu smentito da una indagine della Corte Costituzionale.
Il 18 marzo 1978 è il momento del cordoglio. Nella Basilica di S. Lorenzo al Verano si svolgono i funerali di Stato dei 5 uomini uccisi dalla B.R., eroi del loro e del nostro dovere. Sono l’appuntato Domenico Ricci, 42 anni, gli agenti Giulio Rivera, 25 anni e Raffaele Iozzino, 25 anni anche lui, Francesco Zizzi, vice brigadiere, 30 anni, Oreste Leopardi, maresciallo dei CC, 52 anni. A commemorarli, tutte le massime Autorità della Repubblica, insieme ai principali rappresentanti dei Partiti e delle Organizzazioni sindacali. Il momento è solenne e drammatico. Sta li, in quella Chiesa e dentro quelle bare, l’Italia colpita a tradimento, con la crudeltà che è propria di terroristi ignobili, combattenti di un esercito mercenario, destinato comunque a non prevalere.
Durante il processo Moro quater, il brigatista pentito Valerio Morucci depose: “L’auto tamponata era guidata da Mario Moretti; all’incrocio di Via Fani, a sparare fummo io, Barbara Balzerani, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli; al volante dell’auto sulla quale venne caricato Moro, Bruno Seghetti”. Una ricostruzione poi sconfessata, almeno in parte, dagli atti del Tribunale, nei quali si evidenziano palesi falle inquisitorie. Ci fu un membro della Commissione parlamentare che giudicò le inchieste “contrassegnate da errori, omissioni e negligenze”.
Passa un mese di febbrili ricerche senza esito alcuno. Il 18 aprile, l’amministratore di un condominio romano in Via Gradoli, al decimo chilometro della Cassia, chiama i Vigili del Fuoco, perché c’è un appartamento allagato. All’interno non abita nessuno. I pompieri entrano e si trovano di fronte un arsenale. Si tratta di un covo dei terroristi dove forse avevano condotto Aldo Moro. Dopo un paio di giorni, arriva al Messaggero un comunicato a firma B.R.: Il corpo del Presidente D.C. si trova nel Lago della Duchessa, un piccolo specchio d’acqua di montagna, a circa 1800 metri s.l.m., al confine tra il reatino e l’aquilano. I sommozzatori scandagliano sotto la crosta gelata. Il ghiaccio, riferiscono, è molto vecchio e quindi l’informazione è falsa.
L’ultimo atto della reclusione di Moro, nella sedicente “prigione del popolo”, arriva il 9 maggio: con una telefonata, le B. R. annunciano che il corpo dello statista si trova nel portabagagli di una Renault parcheggiata al centro di Roma. Papa Paolo VI disse: “Dio della pietà Tu non hai esaudito la nostra supplica”.