MORRA – Nel contesto di un Festival delle Nazioni tutto dedicato alla repubblica Ceca non poteva mancare un appuntamento riservato al cuore verde della Boemia musicale.
Paese di inaudite, per quanto immaginate felicità, la “verte Bohème” come l’avevano immaginata e riprodotta gli scrittori francesi. Tanto da convincere George Sand ad ambientarci il finale del suo romanzo Consuelo, quando la popolana veneziana diventa sposa del conte di Rudolstadt, principe di antico lignaggio boemo.
Tra canti hussiti, lancinanti melodie popolari, improvvisazioni su violino che dell’antico spirito boemo dovrebbero essere l’esternazione più violenta, il felice connubio ha per testimoni personaggi incredibili come i musicisti Benda e Misliveċek in persona.
Nomi da dizionario o da comparti di storia della musica, se poi un complesso come gli Auser, denominazione dell’antico fiume che traversava Pisa, non avessero deciso, nel loro itinerario di riscoperta della musica meno nota del Settecento, di mettere un accento su una produzione tanto declamata e conclamata, per quanto poi realmente poco conosciuta.
Ieri pomeriggio eravamo un bel gruppetto di ascoltatori nella fragrante aula dell’Oratorio di San Crescentino, a Morra, che racchiude al suo interno i capolavori del Signorelli. Il flautista Carlo Ipata aveva accolto tutti col suono del suo traverso “all’antica”, aprendo il concerto con una Sonata del citato Misliveċek, una cosina galante e infiorettata con violino, cello e cembalo. Partenza felice dunque per un viaggio tra porcellane rococò, con pastori e ninfe in pose da piroetta oggi ancora visibili su vasi preziosissimi, equamente distribuiti tra musei, negozi di antiquariato e case di abbienti estimatori.
Ma alla fine del primo numero del concerto avviene l’incredibile. Una delle grandi lampade che diffondono luce dal soffitto comincia a sfrigolare, poi si spegne, espandendo un insopportabile puzzo di plastica bruciata per ogni angolo dell’oratorio. Ordinatamente, ma senza indugi, fuggono i musicisti e sciamano all’esterno gli spettatori. Tutti sul sagrato, mentre il personale del Festival affronta con calma l’emergenza. Ma l’odore è nauseabondo e di rientrare non è proprio il caso. Ipata si fa carico della situazione e suggerisce di proseguire il programma all’esterno.
Si afferrano le sedie e tutti si accomodano davanti al portale. I musicisti si espongono con vero coraggio all’umidità di una giornata che volge al tramonto e risolvono impavidi i problemi di intonazione e tensione delle corde. E continuano a trasportarci in un mondo di immagini sonore laccate e lucenti che, ovviamente nascondono la dura realtà dei tempi in cui vennero composte.
In Boemia, come attestò il grande musicologo inglese Burney che nel 1772 visitò quel plesso di province che allora si definivano Boemia, incontrò in ogni villaggio frotte di musicisti, soprattutto a fiato, che suonavano nelle più svariate circostanze. Ambulanti o stabili gli strumentisti si aggregavano in vere e proprie compagnie. Erano tutti contadini o piccoli artigiani che, per sfuggire alla miseria, si ponevano al servizio dei signorotti locali, assicurando loro il benessere della musica. Riprodotta, oltretutto, con vera maestria. Di qui una vero e proprio esubero di musicisti, sia esecutori che autori, con la conseguente emigrazione praticamente nella capitale dell’impero, Vienna, e poi nel resto dell’Europa dei Lumi.
A pescare in un catalogo praticamente sterminato c’è solo da scoprire un repertorio che non offre certo capolavori, ma esibisce un tono medio di qualità che non tradisce l’ascolto. Musica senza profondità, ma costruita con una maestria che, appena può, sfocia nel patetico e nel sentimentale. Come nel caso della Sonata in mi minore di Frantisek Benda, un musicista che sfangò la povertà andando a lavorare per il re di Prussia Federico secondo. L’ha suonata con trasporto Valentiva Dagmar, appoggiandosi al violoncello di Valeria Brunelli e al cembalo di Federica Bianchi.
Prima ancora dello stesso Benda si era ascoltata un’altra sonata in mi minore, ma col flauto di Ipata. Inconsueta questa tonalità, che rimanda proprio al “patetico” e che Mozart, molto attento ai suggerimenti dei Boemi, traslò in chiave magica nella sua celebre sonata per violino.
Il resto del programma era spalmato su un pressoché ignorato Jirovec, per soli archi e sul conclusivo Karel Stamic. Ambedue riuscirono a realizzare una carriera internazionale con cui onorarono lo spirito dell’antica Boemia che li aveva nutriti e allevati. E la loro musica ha risuonato nella concordia di una civiltà che ha saputo dare molto all’Europa del suono.
Mentre cala la sera, con le colline boscose e verdissime ormai imbrunite, non possiamo che sentirci fortunati per aver goduto di un concerto suggestivamente ambientato in un esterno da Grand Tour.
Stefano Ragni